Cosa è successo in Cina (da Tecnè)

svastica

La locomotiva è andata in tilt. Dopo la crescita vertiginosa, a cui ci aveva abituato anche negli anni della crisi economica, l’economia cinese sta crescendo ad un ritmo inferiore rispetto al passato. Tra il 2012 e il 2014, il Pil è aumentato – decimo più, decimo meno – del 7% su base annua. Quest’anno le cose potrebbero andare anche peggio: secondo l’agenzia Moody’s, l’economia cinese crescerà del 6,8%, per poi scendere al 6,5% nel 2016. Alcuni analisti prevedono una crescita ancor più modesta, compresa tra il 4 e il 4,5%, mentre le stime ufficiali della Repubblica popolare cinese pronosticano un aumento del 7%. Indipendentemente da come andranno le cose nei prossimi mesi, gli indicatori principali testimoniano il rallentamento attuale: il più recente dato sulla produzione industriale è ai minimi da 77 mesi; mentre nell’ultimo trimestre le esportazioni, reale motore dell’economia cinese, sono crollate dell’8,3%. Pechino ha deciso così di correre ai ripari. Come? Seguendo la mossa più logica: svalutare la moneta di Stato, lo yuan. La svalutazione renderà i prodotti cinesi meno costosi per i consumatori stranieri che, richiedendone una quantità superiore, favoriranno l’export cinese.
Tuttavia il crollo delle esportazioni non è probabilmente l’unico motivo che ha spinto la Banca centrale cinese ha svalutare lo yuan. La Cina potrebbe aver interesse ad inserire la propria moneta tra quelle considerate di “riserva”, ovvero quelle valute che vengono utilizzate a livello internazionale per la valutazione dei prodotti commerciati nel mercato globale. Secondo il Fondo monetario internazionale, che ha accolto positivamente la decisione di Pechino, lo Yuan non aveva il requisito necessario per poter essere inserito nella lista delle valute di “riserva”, che comprende il dollaro, l’euro la sterlina e lo yen: essere una moneta “libera”. Fino ad oggi, infatti, le oscillazioni quotidiane del valore dello yuan non erano dovute alla domanda del mercato mondiale – come accade per le valute considerate “libere” – ma sulla base di indicazioni dettate unicamente dalla Banca centrale cinese, che consentiva al mercato di fare oscillare il prezzo della moneta in un arco compreso tra il +2 e il -2% attorno ad un valore di riferimento stabilito in maniera indipendente rispetto a quanto deciso dal mercato stesso.
La svalutazione della moneta ha i suoi vantaggi – favorisce le esportazioni, come già detto –, ma ha anche i suoi limiti: una valuta meno pregiata rende più costoso importare prodotti dall’estero (beni di lusso e largo consumo, macchinari…). Ciò vale per chiunque, anche per la Cina. A risentirne negativamente potrebbero essere le aziende – specie quelle del lusso – che esportano buona parte dei propri prodotti sul mercato del gigante asiatico e i consumi interni, che rimangono al di sotto delle aspettative del governo, nonostante le recenti misure adottate per il loro sviluppo, condizione necessaria per garantire una crescita economica duratura. Dal 1° giugno, infatti, Pechino ha tagliato i dazi sulle importazioni di prodotti di abbigliamento, calzature, cosmetici e altri beni di lusso e di largo consumo. Per la Cina, che paga anche l’assenza di un corposo ceto medio, fondamentale per il benessere delle economie, i problemi non finiscono qui.
Nell’ultimo anno, ad esempio, i prezzi delle azioni sulla borsa di Shanghai e di Shenzhen sono cresciuti moltissimo: una crescita apparentemente non giustificata dai risultati delle aziende quotate in borsa e dalle performance economia reale, che sta rallentando. L’ascesa dei prezzi delle azioni, trainata da ChiNext – ovvero l’indice che raccoglie le maggiori società tecnologiche cinesi –, si è interrotta improvvisamente il 12 giugno scorso. Secondo alcuni analisti, gli investitori hanno venduto le azioni che possedevano perché incerti sul loro reale valore, scatenando una reazione a catena: anche chi era più sicuro dei propri investimenti ha preferito di “liberarsene”. Il governo cinese non è restato a guardare: inizialmente ha tagliato i tassi di interesse, portandoli al livello più basso di sempre; ha introdotto l’obbligo per gli investitori, che possiedono oltre il 5% delle azioni di un’azienda, e a tutti gli investitori stranieri di vendere le loro quote per sei mesi; e ha incoraggiato le imprese cinesi e i piccoli investitori a prendere soldi in prestito per investire in borsa. Tuttavia, secondo alcuni analisti che denunciano le carenze dell’economia cinese (mancate liberalizzazioni, poca trasparenza, bassa domanda interna, corruzione dilagante…), per ridurre la caduta dei prezzi, Pechino deve intervenire in maniera ancor più incisiva attraverso un Quantitative easing, ovvero una politica monetaria che prevede la creazione di “nuova” moneta con cui acquistare sul mercato titoli di Stato e obbligazioni di altro tipo. In sostanza, la Cina deve seguire l’esempio delle banche centrali di Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione europea. Soltanto in questo modo potrà evitare che il peggio (l’azzeramento dei guadagni in Borsa da inizio anno) possa ripercuotersi negativamente sull’economia mondiale.
Cosa insegna il caso cinese? Che l’intervento pubblico in economia si dimostra fondamentale laddove il mercato, lasciato libero di agire, dimostra di non essere infallibile.

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