Di nuovo, dunque, si camminava. Il sonno, la fame, il freddo, la stanchezza sono niente e tutto. L’importante è solo camminare. Con gli occhi bassi sulla pista dove la neve calpestata da decine di migliaia di altri piedi porta i segni del passaggio. Quì la neve è dura, anzi è diventata ghiaccio, e il vento, ancora, scivolando via leviga la superficie con altra neve che raccoglie dalla steppa senza limiti o dalle stelle. Oltre la pista è buio profondo e neve vergine a banchi, ed erbe secche curvate dal vento.
I piedi seguono la pista e quando sotto le stracce che li ricoprono sentono che il suolo cambia, riprendono incosciamente la strada perduta. Un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro. Avanti. Per quanto ancora? Ma ci sarà una fine, no? A volte inciampano in una cassa di munizioni vuota, in armi gettate, in elmetti, zaini, corpi irrigiditi come pietra. Questi piedi avvolte in stracce, che vanno verso ovest, un passo dopo l’altro. E sotto le stracce cancrene, piaghe, ginocchia che dolgono. Questi piedi che tanto avevano ballato nelle osterie di paese nel tempo di carnevale, che avevano salito le montagne per lavori pacifici, che avevano portato un corpo giovane a incontrare una ragazza. Sotto le stracce di coperte ci sono i gonfiori bluastri dei congelamenti che le scarpe della patria non hanno saputo evitare. Ma avanti ancora un passo, avanti, avanti ancora un passo. Non fate inciampare nei corpi di pietra dei compagni. E quando questi piedi non ce la faranno più ci saranno le ginocchia e i gomiti per proseguire ancora un poco verso un luogo senza più guerre.
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