Gabriel García Márquez, realismo e magia (di Giampiero Francesca da Tmag)

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All’età di 87 anni, nella sua casa di Città del Messico, si è spento giovedì scorso Gabriel José de la Concordia García Márquez. Il compito di dedicare poche righe a figure del calibro dell’autore di “Cent’anni di solitudine” è impresa ardua. Un semplice elenco delle sue opere, una breve descrizione della sua vita non restituirebbe infatti quasi nulla della sua straordinaria arte, della sua influenza sulla cultura del ’900, della sua magia. Si potrebbe allora cercare direttamente nella forza delle sue parole la strada per raccontare il complesso mondo di questo fondamentale autore, rifuggendo, al tempo stesso, lo stimolo di citare l’inflazionato incipit del suo romanzo più famoso (che già inonda centinaia di bacheche di social network) o i passaggi più note della sua bibliografia. Così, sfogliando pagine e pagine di scritti indimenticabili, la mente si potrebbe fermare ad un ricordo personale dell’autore, un momento di vita vissuta fissata nelle pagine delle sue memorie, Vivere per raccontarla, per provare a restituire parte di quel fascino, di quel melange di incanto e realismo, che caratterizza le sue opere.

“La prima cosa che mi colpì”, scrive Márquez ricordando il suo primo ritorno a Aracataca, la piccola città in cui aveva passato la giovinezza, “fu il silenzio, un silenzio così tangibile che avrei potuto riconoscerlo, bendato, fra tutti gli altri silenzi del mondo. Il riverbero era così intenso che sembrava di guardare tutto attraverso un vetro ondulato. Fin dove gli occhi potevano arrivare non c’era nemmeno un vago ricordo d’anima viva, tutto era ricoperto da un lieve manto di polvere arsa”. Una descrizione ammaliante che, proprio come le sue opere più famose, riesce a fondere nelle stesse immagini, realtà e immaginazione. La stessa ricchezza di dettagli sensoriali, la capacità di far vedere con i suoi occhi e sentire con la sua pelle, rimanda immediatamente a quell’idea di realismo magico, chiave di volta della sua letteratura.

Uno stile manifestazione concreta del suo pensiero, tanto radicato e profondo da emergere, quasi spontaneamente, in un ricordo, in una traccia di passato nella sua memoria. Era stato infatti lo stesso scrittore, premio nobel nel 1982, a sottolineare, in un’intervista, che “la realtà è anche nei miti della gente comune”. Un misto di illusione e realtà, memoria e profezia, per usare le parole con cui Robert Kiely recensì l’uscita americana di “Cent’anni di solitudine” per il New York Times, che, dall’animo profondo dell’America Latina, permeava l’opera e l’essenza di Gabriel Garcia Márquez. A differenza di molti altri autori sudamericani infatti la sua forza derivava proprio dalla ferra volontà di rimanere ancorato alla tradizione, al passato, all’anima della sua terra, quasi senza contaminarsi con l’occidente (spesso criticato).

Il realismo magico che pervadeva ogni opera non era infatti il frutto originale ed inedito della mente di Márquez ma la summa, l’accordo armonico di una secolare cultura. Folclore, morale, costumi, usi, storie e Storia, ricordi, riti e ideali si fondono così insieme restituendo uno stile, che, come ricorda Jonathan Kandell nel suo ricordo per l’autore sul New York Times, “ha ispirato scrittori su entrambe le sponde dell’Atlantico, da Isabel Allende in Cile a Salman Rushdie in Inghilterra”. Al di là delle frasi ad effetto e delle facili citazioni la sua più grande eredità non può dunque che risiedere proprio in questa malia, unita alla sua stessa testimonianza di vita, politicamente e socialmente dedicata a valori come l’uguaglianza, e all’affermazione di un orgoglio sudamericano la cui reale libertà è, purtroppo, ancora in parte da costruire.

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