“Il MOSE”, un modello, un sistema diffuso nel paese al costo di 60 miliardi di euro l’anno (di Francesco Carta)

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60 miliardi di euro l’anno, tanto costa la corruzione nel nostro Paese. Un fenomeno trasversale, vere e proprie associazioni a delinquere nelle quali spiccano gli amministratori ma ex equo trovano posto imprenditori, ufficiali della Finanza e Magistrati come nel caso del Mose. Nel sistema ci sono anche magistrati delle acque ed il Sindaco di Venezia. C’è qualcuno che ancora distingue tra chi intasca i soldi per uso personale e chi li usa per le campagne elettorali, sottolineando in questo caso che si tratta di finanziamento illecito della politica. Ma andiamo si sottraggono soldi pubblici alle opere ed ai cantieri di utilità pubblica con la conseguenza che i lavori si allungano a dismisura e non finiscono mai.

A Renzi si chiedono decisioni esemplari, rapide mosse per tagliare queste vergogne che sottraggono risorse al Paese e lo sputtanano in campo internazionale. Travaglio, Grillo e 5stelle parlano di “larghe intese delle manette” e ricominciano gli attacchi contro il governo ed il PD. Certo vedere coinvolto il Sindaco Orsoni di Venezia, aderente al PD, indigna coloro che alla politica hanno sempre dato senza averne una ricaduta personale in privilegi o altra utilità. Naturalmente le accuse dovranno essere provate ma gli arresti non sono provvedimenti che si assumono a cuor leggero e dunque è ipotizzabile che i Magistrati abbiano raccolto prove convincenti.

Il Partito Democratico dovrebbe rivedere le modalità di adesione richiedendo precise garanzie tra le quali anche quella di essere presentati da un iscritto che funga da garante. Una volta, nel Partito Comunista, l’iscrizione avveniva su richiesta scritta dell’interessato attraverso un modulo sottoscritto anche da due garanti. Era poi il comitato direttivo a decidere se accettare o meno la richiesta. Ma tornando all’argomento della corruzione. La tangente non solo sottrae risorse che altrimenti andrebbero utilizzate con maggior frutto per il bene pubblico ma produce un ulteriore danno nei casi in cui genera impegno di risorse per acquisti di beni o lavori inutili. E qui vorrei fare esempi diversi di lavori dubbi, abnormemente gonfiati, la cui utilità sfugge completamente ad ogni buon tentativo di comprensione.

Vorrei citarne alcuni di cui la conoscenza diretta mi ha posto degli interrogativi che lasciano spazio al detto andreottiano “a pensar male si commette peccato ma quasi sempre ci si azzecca.” Il primo: un corto circuito annerisce un pezzo d’intonaco di una stanza di 80 metri quadri posta al 5° piano dell’ospedale di Formia, utilizzato per lo stoccaggio dei materiali di consumo del reparto di Dialisi. Da Latina chiedono alla Direzione Sanitaria di Formia il nulla osta per eseguire lavori di rifacimento degli intonaci e per la tinteggiatura per un costo complessivo di 46 mila euro + IVA. La Direzione di Formia chiede spiegazioni ritenendo che forse c’era stato un errore: 4600 euro e non 46000. La risposta è stata lapidaria: non vi impicciate, i costi dipendono dai tariffari regionali. La Direzione rispose picche e il lavoro non fu fatto.

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All’Ospedale di Gaeta, volano un paio di tegole ed il risultato sarà il consolidamento dell’intero tetto per un importo complessivo di 195 mila euro + IVA. In fretta e furia montano i ponteggi attorno all’intera struttura per rifare un tetto realizzato appena 7 anni fa.

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Un comunicato stampa del sottoscritto in qualità di coordinatore del circolo Piancastelli – Diana del PD mette in rilievo la frettolosa e incomprensibile procedura di rifare un intero tetto ancora efficiente impegnando risorse che altrimenti potrebbero essere destinate all’acquisto di un Ecografo o altro apparecchio. Nel giro di una settimana i ponteggi, per i quali avevano cominciato a pagare il nolo, vengono smontati.

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Restano in piedi, in piccola parte, solo sul retro dell’edificio. Nel frattempo la “fabbrica del duomo” dell’ospedale di Formia continua imperterrita: stanno rifacendo i pavimenti dei balconi. Rimuovono una pavimentazione da poco realizzata e del tutto integra.

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Lasciano pavimentazioni in mattonelle di gres molte vecchie che però sono in ottimo stato e rimuovono quelle realizzate più di recente.

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Il Mose è in grande ma nella penisola ci sono mille e mille Mose piccoli e medi che a conti fatti pesano complessivamente 60 miliardi di euro l’anno sul nostro PIL. Il 15 marzo 1980 il quotidiano “La Repubblica” pubblicava uno scritto di Italo Calvino che s’intitolava “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. Ebbene questo scritto resta ancora attualissimo.FC

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Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

di Italo Calvino*

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori

Italo Calvino racconta la controsocietà degli onesti
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di Rossella Guadagnini

Corruzione, quanto siamo cambiati? Poco, pochissimo, a quanto pare. Basta tirare le somme. A detta della Corte dei Conti oggi la corruzione costa alle casse dell’Erario 60 miliardi di euro all’anno. Una cifra scandalosa, che fa il paio con quella dell’evasione fiscale, che ‘vale’, in imposte non versate, addirittura il doppio: 120 miliardi di euro, sempre all’anno. Il 12% degli italiani, nell’arco degli ultimi 12 mesi, si è visto chiedere una tangente, secondo il dossier “Corruzione, le cifre della tassa occulta che impoverisce ed inquina il paese”, in cui è raccolta l’ultima rilevazione di Eurobarometer 2011. Questa tassa occulta costa all’Italia 10 miliardi di euro in termini di Prodotto Interno Lordo, circa 170 euro annui di reddito pro-capite e oltre il 6% in termini di produttività.

“E’ una seconda tangentopoli’ ha dovuto ammettere il ministro della Giustizia, Paola Severino. “La quantità di casi che si stanno verificando lo rende evidente. Ma – ha osservato – con qualche differenza rispetto al 1992 perché si tratta di una serie di casi estremamente gravi, che si innestano in un quadro di grandi bisogni del Paese, che rendono più gravi questi episodi”. Perciò è irrinunciabile il ddl anticorruzione, ora in discussione a Palazzo Madama: per quanto il testo sia stato criticato e accusato di debolezza, sia dai politici che dai magistrati, “è un decreto salva democrazia”, come afferma lo scrittore Roberto Saviano. Sono soprattutto tre i punti da rivedere: voto di scambio (nel testo risulta punibile solo se il politico lo paga in denaro e non con favori di altra natura), falso in bilancio e norme sull’autoriciclaggio. Senza contare il problema dei termini della prescrizione, che si accorciano invece di allungarsi.

Dunque, fiat volutas dei? No, perché intanto, per far uscire il Parlamento dall’inerzia, si stanno moltiplicando le iniziative della società civile, due esempi per tutti: l’appello “Dipende anche da te” ha superato le 320mila firme, mentre Libertà e Giustizia ha indetto per il 24 novembre una grande manifestazione al Mediolanum Forum di Assago, alle porte di Milano. “Disinteresse e rassegnazione dei cittadini sono il terreno più fertile per il ricorso o l’adattamento alla pratica della corruzione”, spiega Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani Pulite oggi consigliere della Suprema Corte di Cassazione. Per questa ragione, riconoscere e analizzare le esperienze positive, darne conoscenza, formare una massa critica di amministratori e cittadini sensibili all’integrità pubblica, sono “condizioni necessarie a riattivare i circuiti di controllo democratico, di un Paese come il nostro a illegalità diffusa”.

Davigo ricorda una frase terribile, attribuita a Giolitti che dice: “Le leggi si applicano ai nemici, e si interpretano per gli amici”. “E’ chiaro – commenta poi – che la malattia che ci affligge non è recente, ma cova da molto tempo”. Infatti, già dodici anni prima di Tangentopoli, Italo Calvino scrive un racconto breve. In esso narra di un Paese dove la politica è intrecciata indissolubilmente con gli affari e la corruzione, e dove non è più facile discernere tra lecito e illecito.

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