La partita del premier

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Lo zen e l’arte del contropiede. Anche se da Matteo Renzi, ex scout e cattolico praticante, è difficile aspettarsi una passione per le religioni orientali, la tentazione di ripescare (non rottamare) il libro di Robert Pirsig che univa le qualità più alte della meditazione a quelle più basse e grasse (nel senso di olio usato e mani sporche) della manutenzione della motocicletta, è piuttosto elevata. Con una sostituzione indispensabile: il calcio.

Applicando il gioco più bello del mondo all’attività più lenta d’Italia, la famosa palude, l’ex sindaco di Firenze sta portando nelle case degli italiani il concetto, imprevisto e francamente osé, della politica, non solo veloce, ma a tratti persino divertente.
Ridurre la conferenza stampa di mercoledì a una televendita vecchio stile (Berlusconi, per intenderci) rischia dunque di non mostrare il vero cambio di passo che ha permesso al sindaco di Firenze di entrare a largo del Nazareno prima e a Palazzo Chigi poco dopo. Perché quella che abbiamo visto l’altra sera non era una insolita presentazione a base di slide e pesci rossi, ma una partita a tutto campo tra un modo vecchio di fare e spiegare la politica e un gioco nuovo nel quale il neopremier sta mostrando doti da autentico fuoriclasse. Lo si è capito il giorno dopo a Porta a Porta quando il giovane ospite ha interrotto più volte Bruno Vespa mentre con la solita bacchetta indicava i numeri sullo schermo: «Troppo noioso per gli spettatori a casa».

Piaccia o meno, Renzi ha portato nella politica (e in televisione) le tecniche del calcio moderno fatto di controllo, ripartenza e contropiede. E il risultato, come intuì Sacchi anni fa, è un «gioco spettacolo» capace di trasformare un consiglio di ministri in un evento agonistico commentato e analizzato per tutta la settimana come le partite di campionato durante la Domenica sportiva.
Nel calcio applicato alla politica il premier con la cravatta viola (omaggio alla città o alla squadra? l’ambiguità è voluta) non teme rivali, tanto da rompere il ghiaccio nel vertice a Bruxelles di due settimane fa parlando con Angela Merkel del ginocchio di Mario Gomez, campione grande ma troppo fragile. E non è un caso che, dopo il sì della Camera all’Italicum e il piano «antigufi» con le misure economiche, Renzi mercoledì sera si sia sbottonato il colletto della camicia con un liberatorio «due a zero e palla al centro», prima di andare a scaricare i nervi in una partita di calcetto con il fido Luca Lotti.

Calcio e politica. Anche Berlusconi ha costruito la propria fortuna politica mischiando tacchetti e decreti, San Siro e Palazzo Chigi, ma ogni accostamento è puramente casuale se non fuorviante. Dalla «discesa in campo» al grido di Forza Italia, il cavaliere ha sempre vestito i panni del parùn, del ricco imprenditore di successo capace (così diceva lui) di replicare con l’Italia quello che era riuscito a fare con il Milan. Un padrone, non un giocatore. L’esatto contrario di Renzi che su quel campo vuole giocare e possibilmente segnare.
Basta questo a risolvere i problemi dell’Italia? Ovviamente no. Perché il segreto del contropiede non è solo la corsa, ma ricevere la palla prima di finire in fuorigioco. Ed è qui il punto chiave, per il momento assai debole, della strategia di Renzi: chi gli passa il pallone? E soprattutto, gli arriverà in tempo prima che l’arbitro, anzi gli arbitri – l’Europa, la Merkel, l’opinione pubblica – si mettano a fischiare?

Sul primo aspetto è stato lo stesso premier a indicare una serie di possibilità, ma il fatto curioso e incontestabile, è che gli assist più interessanti e utili gli siano finora arrivati soltanto dall’ex capitano della squadra, Enrico Letta. È vero che Renzi è più dinamico e aggressivo, ma il pallone con cui sta giocando (passato o rubato, vedete voi) è quello cucito e gonfiato dal governo precedente: quei quattro punti decimali che ci separano dalla soglia limite del tre per cento e che il sindaco vorrebbe usare in parte (la metà circa) per coprire, assieme ai risparmi della spending review (altro assist di Letta), i famosi dieci miliardi promessi mercoledì scorso.

In attesa che si mettano in moto altri meccanismi (rientro dei capitali, tassazione delle rendite finanziarie, una spending review più ampia e coraggiosa) sono questi, non altri, i palloni con cui Renzi sta provando a cogliere in contropiede la politica e il Paese. Per non finire in fuorigioco, è però indispensabile che la palla gli arrivi entro il primo maggio, per fare in modo che il 27 di quel mese, dentro dieci milioni di buste paga, ci siano effettivamente gli 80 euro promessi.
Perché questo avvenga ci sono però una serie di difensori, autentici terzini «vecchio stile», da superare: il parere di Bruxelles e il nuovo articolo 81 della Costituzione. Dal primo di gennaio di quest’anno è infatti in vigore una nuova legge, costituzionale addirittura, che impone l’obbligo del pareggio di bilancio e impedisce qualunque decisione che comporti un aumento di deficit, proprio quello che Renzi vorrebbe fare utilizzando parte di quei quattro punti decimali che ci tengono al di sotto del tre per cento. Per farlo, dice la legge, bisogna prima ottenere «l’autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta». Il guaio è che per la legge 243 del 2012 (altro terzino) il governo può presentare la richiesta di indebitamento alle Camere solo dopo aver «sentito la Commissione europea». E qui spuntano le prime pozzanghere capaci di rallentare, se non interrompere, la corsa del pallone: quale Commissione? Quella in scadenza o quella che prenderà posto dopo il voto europeo del 25 maggio e le successive procedure di nomina? Più che del ginocchio di Mario Gomez, è probabile che proprio di questo Matteo Renzi discuterà a lungo domani a Berlino con Angela Merkel. Perché la «politica spettacolo» sarà anche nuova e divertente ma alla fine, come nel calcio, non conta mai quanto corri. Ma solo quando segni.
l’Unità
Luca Landò
16 marzo 2014

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