Marx non è morto

Marx non è morto

Beffarda ironia della storia (di quelle che Marx avrebbe adorato): a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un evento sancito dalla mobilitazione del popolo che a picconate abbatteva la barriera divisoria tra l’Est socialista e l’Ovest capitalista e che sembrava aver segnato la definitiva scomparsa di ogni pensiero che si richiamava a Karl Marx appunto, a trent’anni insomma da allora, constatata la grave crisi del liberalismo e la conseguente ascesa dei populismi e dei nazionalismi e di fronte all’epifania del disagio della globalizzazione, in quel che resta dell’Occidente si sente nostalgia per il pensiero di Marx. Certo, negli ultimi anni si è parlato, soprattutto grazie a Thomas Piketty, dell’autore del Capitale. Ma, attenzione, il Marx di stringente attualità e di cui parliamo qui con la filosofa Donatella Di Cesare, non è l’economista e tantomeno ha la faccia da totem dell’ortodossia. Al contrario, è un pensatore politico, sovversivo, eretico, apocalittico, profetico e messianico; al contempo realista e utopico. Ed è forse quello l’elemento del pensiero e dell’idem sentire in grado di riscaldare i cuori e riaccendere le coscienze, in un tempo in cui, in questo gelido inverno epocale, alla sinistra mancano miti, simboli e perfino memoria.

Cominciamo dall’inizio. A trent’anni dalla caduta del socialismo reale Marx è tornato.
«Nel corso degli anni Ottanta e Novanta gli scritti di Marx non erano del tutto dimenticati; se ne occupavano, però, soprattutto gli specialisti. Oggi viene riscoperto perché siamo rimasti per decenni ostaggio di un discorso che non permetteva di vedere il capitalismo da “fuori”, prigionieri della logica per cui il capitalismo è il capitolo definitivo della storia senza possibilità di appello, e senza la capacità di immaginarsi altro che il perpetrarsi dello status quo. Marx può aiutarci a guardare oltre il capitalismo. Mi piace parlare in tal senso di un Marx quasi profetico, un profeta ultramoderno».

Era profetico, eppure ossessivamente seguiva la politica quotidiana. Scriveva commenti e corrispondenze su “New York Daily Tribune” (più tardi “Herald Tribune”). Commentava le elezioni inglesi, appoggiava i polacchi nella lotta contro i russi, si appassionava alla Guerra di Crimea. In quegli articoli si mostrava come un osservatore molto pragmatico della vita politica.
«Sì, ma la dimensione pragmatica dei suoi scritti è sempre intrecciata con la dimensione speculativa-filosofica».

Di questa dimensione concreta resta qualcosa di importante, o dobbiamo constatare che lo faceva per guadagnare denaro, per non essere interamente dipendente dall’aiuto finanziario di Engels?
«Delle analisi contingenti non resta poi troppo. Resta invece la sua analisi sulla misera condizione dei lavoratori, una miseria non solo economica, ma anche umana. Marx punta l’indice contro l’infamia del capitale che riduce tutto a merce e rende estraneo l’essere umano persino alla sua umanità. Il denaro divinizzato diventa l’anima del mondo. Parlando dell’attualità di Marx vorrei dire che fino a pochi decenni fa era visto come il pensatore che, insieme ad Engels, aveva posto le fondamenta di quello che si suole chiamare “socialismo scientifico”».

Una definizione sovietica, che cercava di costruire un’ortodossia, togliendo ogni elemento tragico.
«Non parlerei di “tragico” a proposito di Marx, che è invece un pensatore apocalittico. Nelle sue analisi risuona il fragore di una catastrofe apocalittica che è perciò anche rigenerativa. Detto questo: nell’idea del “socialismo scientifico” era insita la convinzione per cui, un giorno, ineluttabilmente, il proletariato avrebbe conquistato il potere e i rapporti di produzione capitalistici sarebbero stati superati. Era un modo deterministico di vedere la storia, concepita come Storia del progresso. Marx veniva letto con le lenti progressiste. E questo perché era egemone il mito del progresso appunto, un mito che abbiamo interiorizzato. Eravamo convinti che le condizioni dell’umanità andavano migliorando. E in quest’ottica leggevamo Marx».

E invece…
«Invece, la questione è più complessa. Certo, Marx che, non si deve dimenticare, era allievo di Hegel, guardava alla storia nel suo andamento dialettico. Però, nel suo pensiero è fondamentale il rifiuto di un concetto che definirei come “progressismo lineare”, ingenuo, che considera ogni stadio della civiltà superiore a quello precedente. A Marx non sfugge invece il carattere contraddittorio del progresso. Per molti versi l’operaio che lavora in fabbrica vive molto peggio del contadino nella vecchia comune rurale. Il che non significa essere nostalgici di quell’epoca, ma guardare criticamente la “civiltà”. Per Marx la storia non è un cammino rettilineo, bensì un processo pieno di improvvise svolte, interruzioni, retromarce. Noi oggi non possiamo non riconoscerlo. Basti un solo esempio: il cambiamento climatico, risultato dello sviluppo capitalistico-industriale, mostra con evidenza che il mito del progresso, come si poteva intendere qualche decennio fa, non regge più».

Sta dicendo che Marx è sopravvissuto al crollo del mito del progresso? E il suo pensiero ha una valenza enorme proprio perché noi tutti siamo dei sopravvissuti alla fine di un mondo?
«Sì. Ma attenzione, Marx è rimasto sempre sullo sfondo. E ora, mentre dobbiamo constatare che la storia non va come credevamo, lo riscopriamo».

Marx ci piace perché non era un socialdemocratico?
«Questo però è un altro discorso. Magari lo riprenderò se avremo modo di parlare di Walter Benjamin. Marx pensava a un balzo, un salto messianico su un abisso altrimenti inspiegabile. È l’impossibile che irrompe nella storia per mutarne il corso. Un’idea ebraica, quella dell’interruzione del tempo. Questo ce lo fa sentire così affascinante oggi, ai tempi della dittatura del reale, del concreto, del contingente».

Alla dittatura del contingente, torneremo. Intanto, il grande teorico della letteratura George Steiner disse una volta che Marx era interprete di un ebraismo impaziente. Non aveva cioè la pazienza di attendere l’avvento del Messia. Ora il Messia, nell’ebraismo è anche una figura politica e Marx era discendente dei rabbini, seppur di una famiglia convertita al cristianesimo.
«Certo, c’è un’impazienza messianica in Marx. Nel suo ossessivo interesse per la politica guarda alle condizioni per la rivoluzione. Speranza e delusione si alternano, in particolare prima per gli eventi del 1848».

In Francia finì, anziché con la rigenerazione, con il colpo di Stato autoritario, su cui aveva scritto “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”. In quel pamphlet dice che gli uomini fanno la storia con i materiali che trovano, in maschere del passato, e anche che nessuna Costituzione può garantire la libertà quando un leader si rivolge direttamente al popolo.
«Ma sempre in Francia, la Comune di Parigi del 1871 è per Marx un evento chiave. Analizza con perspicacia la vicenda, esalta quello che lui chiama “l’autogoverno dei produttori”, ammira la costituzione comunarda che rende superfluo lo Stato, un’escrescenza parassitaria. Potrei dire che in quell’occasione emerge un Marx vicino a Bakunin, un Marx anarchico. Di fronte alla Comune, entusiasta, proclama: «Questo è comunismo, “impossibile” comunismo». Vale la pena qui sottolineare che per Marx il comunismo è, e resta, un concetto filosofico, legato al comune, alla comunanza, alla comunità, un concetto imprescindibile e incancellabile da qualsiasi realizzazione politica. Dopo l’eccidio dei comunardi giunse l’ennesima delusione. Ma lui, nelle sue fumose stanze londinesi, seguendo gli eventi politici in tutti i paesi, leggendoli con il suo occhio apocalittico, continuò a scrutare nella irragionevolezza della storia per scoprire anzitempo i segnali che avrebbero portato sino all’ultimo salto, nel regno della libertà. Ecco l’impazienza messianica».

Possiamo introdurre un altro elemento? Ha parlato di Walter Benjamin, a cui accenna nel suo libro “Sulla vocazione politica della filosofia”, interprete di un Marx eretico, paradossalmente eretico a se stesso e al mito del progresso. Per Benjamin il passato non è mai un capitolo chiuso, ma può essere riaperto. Nel pensiero rabbinico esiste il concetto della Teshuvah, il pentimento sincero, in grade di riaprire e modificare il passato. Aggiungiamo che oggi abbiamo l’impressione che il tempo sia stato abolito e viviamo in un eterno presente.
«Il capitalismo ci condanna alla reiterazione del presente, un presente che si dilata, cancella il passato e chiude il futuro. La chiusura al futuro è un fatto politico decisivo ed è il risultato del discredito in cui il liberalismo ha gettato l’utopia, perché l’utopia porterebbe sempre al totalitarismo. Così, non appena si tenti di guardare oltre il liberalismo, si viene tacciati di essere totalitari».

Per Benjamin la razionalità non basta per rovesciare la logica del capitalismo. E poi, resta inevasa la domanda su come riaprire il passato.
«Per Benjamin viviamo in una sorta di sonnambulismo in cui ci vengono dettati anche i sogni, che però si rivelano incubi. È per questo che Benjamin sostiene l’esigenza del risveglio. Ma risveglio in che senso? Risveglio della ragione, come direbbe un illuminista? No. La ragione è quella che ha portato al predominio della tecnica e, in fin dei conti, ad Auschwitz. Certo, Benjamin muore nel 1940, suicida ben prima di questo epilogo, ma avverte già l’incombere dello sterminio. Il risveglio a cui fa appello è il risveglio ai sogni dimenticati, rimossi, cancellati. A cominciare dai sogni del passato sognati dagli sconfitti della storia, dalle nostre madri e dai nostri padri. Dalle generazioni che attendono un riscatto. Perciò Benjamin dice che noi siamo attesi nella storia che a ciascuno di noi spetta un potenziale messianico che non dobbiamo dissipare. Abbiamo bisogno del riscatto del passato, guardando al futuro».

I sogni dimenticati ci aiutano a resistere?
«Sì. Ma anche quelli che Benjamin chiama “Denkbilder”, non semplici fantasticherie, ma immagini utopiche, ideali critici che mirano a trasfigurare l’immaturità del reale. Potremmo dire che queste immagini, che scaturiscono dal dolore per un ordine insensato risvegliano la nostalgia per ciò che è giusto. È questa la lezione di Benjamin come interprete di Marx. Prima lei faceva riferimento alla socialdemocrazia. Ecco, Benjamin definisce la socialdemocrazia “un brutto poema primaverile”, il prodotto di un ottimismo da dilettanti, di un riformismo liberale che rimuove il tratto apocalittico della storia. E invece è importante il pessimismo, il pessimismo organizzato. La sinistra ha per Benjamin il compito di organizzare il pessimismo».

Zygmunt Bauman diceva che viviamo in un mondo in frammenti. Compito quindi della sinistra è rimettere insieme i cocci, ridare un senso?
«È decisiva l’idea della ricomposizione. C’è una bella parola ebraica, Tikkùn, che significa riparazione del mondo. Non può esserci mutamento nel futuro senza questa ricomposizione, questo riscatto del passato».

Torniamo all’attualità, per modo di dire. Marx ragionava in termini di un mondo globale, un quadro che ci viene invece precluso dalla narrazione sovranista dominante.
«Non solo Marx. Tutta la tradizione della sinistra ha sempre analizzato gli eventi in un’ottica mondiale, di rado nazionale, o peggio, nazionalistica. L’idea che debba prevalere l’interesse di un proletariato nazionale, francese o italiano, non è mai stata di sinistra. La sinistra è internazionalista o non è».

E il proletariato cosa è diventato oggi? Il migrante?
«Per Marx il proletariato è una classe “con catene radicali“, un ceto su cui viene esercitata non una “ingiustizia particolare”, bensì “l’ingiustizia senz’altro“, la completa perdita dell’umanità. I suoi dolori sono universali, universale è il ruolo che può svolgere. Sarebbe sbagliato vedere nel proletariato solo la massa concreta dei proletari, perché è piuttosto una forza storica. Questo punto è molto importante oggi che l’aristocrazia operaia di una volta quasi non esiste più. Quali sono allora i protagonisti del cambiamento? Coloro a cui è affidata l’organizzazione del pessimismo? Sul migrante si esercitano due discriminazioni che si saldano in modo inedito, quella di «razza» e quella di «classe». Non è un nemico, è un alleato. L’alleanza degli sconfitti è ampia: comprende i calpestati, gli infimi, i disoccupati, i senza-stato, i rifugiati, le scorie della globalizzazione, le donne. Guardiamo allora con fiducia a un essere-insieme per la giustizia, questo vuol dire etimologicamente sindacato, (“sin”, in greco insieme, e “dike” giustizia) di questa alleanza che deve essere articolata e stretta».

Espresso

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