Tutte le implicazioni di una deludente crescita 2015

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La crescita 2015 sotto alle attese

Con i numeri definitivi pubblicati oggi dall’Istat la crescita dello 0,9 per cento per il Pil 2015 riportata nelle più recenti stime ufficiali del governo (la nota di aggiornamento al Def 2015 di fine settembre) è diventata algebricamente molto improbabile.
Partiamo dai dati. Con una sequenza di tassi di crescita congiunturali (di un trimestre rispetto a quello precedente) pari a +0,4, +0,3 e +0,2 per cento nei primi tre trimestri dell’anno, si può calcolare cosa succederebbe alla crescita in tutto l’anno 2015 in funzione di differenti andamenti del Pil nel quarto trimestre (per calcolare la crescita annua si deve confrontare quanto Pil si è prodotto in ognuno dei trimestri 2015 con quanto Pil si era prodotto in ognuno dei trimestri 2014).
Il risultato è riassumibile in poche parole. Se l’ultimo trimestre sarà come il terzo trimestre, cioè un +0,2 , il risultato finale di tutto il 2015 sarà un +0,6 (rispetto al 2014). Se la crescita sarà invece più rapida (con un +0,3 oppure +0,4 per cento) il dato annuo salirebbe al +0,7 per cento. Per arrivare a una crescita annua di +0,8 per cento, servirebbe un quarto trimestre ancora migliore cioè +0,6. Infine, per vedere il +0,9 annuo ripotato dal governo nei suoi documenti ufficiali servirebbe una crescita super dell’1 per cento nel quarto trimestre. Non è impossibile: nel quarto trimestre 2006 il Pil dell’economia italiana salì addirittura dell’1,1 per cento. Ma dal 2001 in poi il quarto trimestre 2006 è una mosca bianca: negli altri 58 trimestri da allora ad oggi la crescita congiunturale è stata superiore o uguale a +1 per cento solo una volta.
Insomma, un +0,9 per il 2015 non è impossibile ma è altamente improbabile. Ed è improbabile non solo il +0,9 ma anche il +0,8 per cento. Il dato a questo punto più probabile è un +0,7 per cento.

Le implicazioni (fiscali e non) di una crescita più lenta

Cosa sarà mai uno zero virgola qualcosa in meno, si potrebbe dire. E invece qualche conseguenza per i conti pubblici c’è. Uno 0,1 di crescita in meno significa 1,6 miliardi di redditi in meno, il che approssimativamente implica circa 0,8 miliardi di euro in meno di entrate fiscali per lo Stato (che si prende in tasse circa la metà dei nostri redditi). In altri termini, uno 0,2 per cento di crescita del Pil in meno rispetto a quanto il governo ha preventivato vuol dire un “buchetto” di uno 0,1 per cento di rapporto deficit-Pil in più, cioè circa 1,6 miliardi di euro. Metà della clausola migranti e tutta la “clausola sicurezza” che il governo sta chiedendo all’Europa nelle ultime settimane.
Sia chiaro: non sono numeri tali da spingere l’Italia tra i cattivi, cioè tra i paesi che non rispettano il 3 per cento fissato dai trattati: il deficit previsto per il 2015 era del 2,6 per cento e quindi si potrebbe arrivare al 2,7 senza che nessun burocrate di Bruxelles (o politico di Berlino) si stracci le vesti, anche tenuto conto che Francia e Spagna hanno numeri ben peggiori di quelli dell’Italia almeno per quanto riguarda il deficit pubblico.
Eppure anche un piccolo sforamento come questo potrebbe ricordare a Bruxelles (e a tutti) quanto i conti pubblici dell’Italia dipendano tuttora da circostanze che non sono sotto il pieno controllo del governo italiano: i decimali della crescita certo non lo sono e l’andamento delle esportazioni (particolarmente negativo nel terzo trimestre 2015) certo non lo è. Sarebbe quindi opportuno che il governo predisponesse almeno un racconto, se non un piano vero e proprio, in cui si spiega come intende fare fronte alla possibilità di scenari meno rosei del previsto per il 2016. Meglio peraltro che questo piano non preveda nuove e più fantasiose clausole di salvaguardia con aumenti automatici di imposta che – si è visto – vengono puntualmente disinnescati solo con il rinvio al futuro.
Francesco Daveri
1 Dicembre 2015

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