Capitale umano, innovazione e crescita economica – Intervento del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco

Bari, 29 marzo 2014

L’economia italiana si è trovata a fronteggiare le recenti crisi, globale prima, del debito sovrano poi, in condizioni più sfavorevoli di altri paesi. A causa di carenze strutturali, in primis l’elevato debito pubblico e la bassa crescita della produttività, che hanno frenato lo sviluppo sin dalla seconda metà degli anni novanta, l’impatto è stato in Italia più grave che altrove: all’inizio del 2014 la produzione industriale risulta più bassa di circa un quarto rispetto al picco ciclico del 2008; in Francia il livello è inferiore del 16 per cento, mentre in Germania l’attività industriale è ritornata al livello precrisi già dal 2011. La disoccupazione è aumentata in misura più marcata, raddoppiando dai minimi del 2007; come in altri paesi, la recessione ha pesato soprattutto sui giovani: il tasso di occupazione per quelli di età compresa tra i 15 e i 24 anni, escludendo gli studenti dalla popolazione di riferimento, è sceso al 42 per cento, dal 60 nel 2007; dal 74 al 65 per cento per la classe di età dai 25 ai 34 anni.
L’attività economica mostra di recente segni di ripresa; alla fine del 2013 si è interrotta una nuova fase recessiva che durava da oltre due anni.

risparmio_crisi_famigliePalazzoKoch_600 Il quadro economico resta tuttavia fragile. Riprendere una crescita robusta e bilanciata, in grado di creare occupazione stabile e accrescere la produttività del lavoro, necessita inevitabilmente di azioni su vari fronti, inclusi il consolidamento di bilancio e le riforme strutturali.
La debolezza della produttività è evidente sia in chiave storica sia rispetto ai principali concorrenti; si è riflessa in una sfavorevole evoluzione della competitività esterna. Nel periodo 1996 – 2007 la produttività oraria è cresciuta in media annua dello 0,6 per cento in Italia, più del doppio nell’area dell’euro (1,4), il triplo in Francia (1,7) e in Germania (2,0).

Negli anni della crisi, tra il 2008 e il 2012, la produttività è arretrata nel nostro paese (-0,2 per cento in media all’anno), contrariamente a quanto accaduto in Francia e in Germania (0,3) e nella media dell’area (0,7).
Tali andamenti riflettono principalmente la mediocre crescita di quella che gli economisti chiamano produttività totale dei fattori, che dipende in misura fondamentale dal capitale umano e dalla capacità d’innovazione e organizzazione delle imprese, oltre che dal contesto istituzionale. Queste determinanti cruciali dello sviluppo presentano nel nostro paese carenze note e finora irrisolte. È utile discuterne congiuntamente, seppur per sommi capi,
anche in ragione delle pronunciate interrelazioni tra le tre variabili e della conseguente possibilità che si creino circoli viziosi.
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Una crescita sostenuta della produttività richiede una forza lavoro che sappia da una parte sfruttare
appieno le potenzialità delle nuove tecnologie, dall’altra adeguarsi tempestivamente alle rapide trasformazioni dell’economia mondiale. Ma conoscenze e competenze dei lavoratori hanno altresì bisogno di imprese e imprenditori dinamici e competitivi che le sappiano valorizzare e aggiornare, in grado di raccogliere le sfide poste dall’innovazione e dalla globalizzazione. Spetta infine alla politica creare un contesto istituzionale più favorevole all’attività d’impresa e alla valorizzazione del capitale umano.
L’analisi congiunta è quindi funzionale alla definizione di strategie d’intervento organiche e di ampio respiro. Le criticità che hanno rallentato lo sviluppo sono molteplici e una strategia di riforma deve considerare in un quadro unitario tutte le variabili in gioco e il contributo di tutti gli agenti del sistema economico: il settore pubblico, le imprese, i lavoratori.

Il capitale umano
Molti indicatori mostrano da tempo un ritardo del nostro paese nei livelli di istruzione e di apprendimento di st
udenti e adulti. I risultati dell’indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), pubblicata dall’OCSE nell’autunno del 2013, evidenziano per l’Italia un grado elevato di “analfabetismo funzionale”, ovvero una diffusa carenza di quelle competenze – di lettura e comprensione, logiche e analitiche – che
rispondono alle moderne esigenze di vita e di lavoro.

Il 70 per cento degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e articolati (siamo
ultimi, a fronte di una media del 49 per cento tra i paesi partecipanti)e una quota analoga non è in grado di utilizzare ed elaborare adeguatamente informazioni matematiche (contro il 52 per cento nella media degli altri paesi). Ciò è, in parte, dovuto ai modesti livelli di istruzione formale raggiunti, ancora distanti da quelli di altre economie avanzate. Nel 2011 solo il 56 per cento della popolazione italiana nella fascia di età 25 – 64 aveva concluso un ciclo di scuola secondaria superiore, contro il 75 per cento della media OCSE: il divario rimane, ancorché più contenuto, anche tra le coorti più giovani (71 contro 82 per cento nella fascia di età 25 – 34 anni). È inoltre ancora modesta la quota dei laureati (15 contro 32 per cento nella fascia di età 25-34 anni).
È limitata anche la diffusione di formazione sul posto di lavoro: secondi i dati della quarta rilevazione europea CVTS (Continuing Vocational Training Survey), nel 2010 solo il 56 per cento delle imprese italiane con almeno 10 addetti ha svolto attività di formazione professionale per i propri dipendenti. Nonostante il notevole miglioramento
– nel 2005 la corrispondente quota era pari al 32 per cento – l’Italia continua a collocarsi al di sotto della
media europea (66 per cento).

È necessario quindi capire perché famiglie e imprese investano in capitale umano meno che negli altri paesi. Nell’ultimo rapporto sull’istruzione (Education at a glance, 2013) l’OCSE ha calcolato, comparando costi e benefici monetari come si farebbe per un titolo finanziario, il tasso di rendimento interno di un investimento in capitale umano. In Italia l’acquisizione di istruzione universitaria rende rebbe l’8 per cento, un valore inferiore di quasi 5 punti percentuali a quello registrato nella media dei paesi dell’OCSE e di quasi 6 a quello raggiunto dagli altri
paesi dell’area dell’euro. Dal punto di vista della teoria economica questo appare come un paradosso: a una più bassa dotazione di capitale umano dovrebbe infatti corrispondere, ceteris paribus, un rendimento dello stesso più elevato, trattandosi di un fattore relativamente scarso.

L’anomalia italiana può essere ricondotta a vari fattori che richiedono politiche coordinate che agiscano su molteplici fronti. È sicuramente importante accrescere la qualità del capitale umano da cui possono attingere le imprese, rendendo il sistema di istruzione scolastica e universitaria più efficiente, più attrattivo anche per studenti e ricercatori stranieri, più differenziato e specializzato al suo interno, con una maggiore mobilità geografica di docenti e studenti.

È poi necessario rimuovere gli ostacoli all’incontro efficiente tra domanda
e offerta di competenze, ad esempio migliorando il flusso informativo fra università e mondo del lavoro o differenziando i curricula universitari adeguandoli alle reali competenze richieste nel sistema produttivo. Scuole e università dovrebbero essere maggiormente indirizzate a favorire lo sviluppo di esperienze lavorative precoci, in modo da facilitare la successiva transizione nel mercato del lavoro, anche nel quadro del piano Youth Guarantee; questo programma dell’Unione Europea si propone di garantire a tutti i giovani sotto i 25 anni non occupati e che non frequentano un corso di studi un’offerta di lavoro adeguata o l’inserimento in un percorso di formazione, entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione.

Vi è infine la responsabilità del sistema produttivo, il quale sembra continuare a prediligere – pur con importanti eccezioni – tecnologie e settori che non richiedono competenze elevate. Una domanda di lavoratori qualificati relativamente contenuta emerge anche da preliminari evidenze sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”. L’Italia è sesta per numero di ricercatori che hanno vinto un grant ERC (European Research Council), le borse di ricerca finanziate dalla Commissione europea; tuttavia è l’unico, tra i principali paesi, per cui la maggioranza dei vincitori risiede all’estero.

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L’innovazione e il contributo delle imprese alla crescita Gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e l’innovazione accrescono l’efficienza produttiva delle imprese e dell’intero sistema economico; favoriscono lo sviluppo del prodotto e dell’occupazione, aumentando il benessere complessivo. In Italia la spesa in R&S,
un’importante misura delle risorse impiegate per la produzione di innovazione, è bassa nel confronto internazionale e
lontana dall’obiettivo del 3 per cento fissato dalla Commissione europea nella strategia UE 2020.

Una ridotta propensione alla R&S si riflette in una scarsa capacità brevettuale: secondo i dati dell’OCSE, la quota italiana sul totale dei brevetti depositati presso lo European Patent Office era nel 2010 pari al 4,2 per cento, poco più della metà della Francia, un quinto della Germania, meno di un sesto degli Stati Uniti. La rilevanza dell’Italia è ancora minore nei settori innovativi delle biotecnologie, dell’ICT e delle nanotecnologie, settori in
cui i brevetti italiani sono pari a poco più del 2 per cento del totale, contro l’8 per cento della Francia, il 16 della Germania, il 34 degli Stati Uniti. In quest’ultimo paese lo straordinario sviluppo di tali settori sta ridisegnando la mappa della crescita e la nuova geografia dei lavori, come recita l’ultimo libro di Enrico Moretti, professore di economia all’Università di Berkeley, California. L’espansione dei settori innovativi costituisce infatti il principale motore della crescita della produttività e dell’occupazione: si stima che a ogni nuovo lavoro
high-tech creato in una data area metropolitana si associno cinque nuovi posti di lavoro in altri settori,
spesso anche nei servizi a più basso contenuto di istruzione e competenze.

L’utilizzo di indicatori quali la spesa in R&S o il numero di brevetti comporta inevitabilmente una sottostima dello sforzo innovativo, soprattutto nei paesi, come l’Italia, dove dominante è la presenza di imprese di dimensione piccola e media, che tipicamente innovano senza registrare ufficialmente spese in R&S. Tuttavia, le innovazioni realizzate da queste imprese sono spesso soltanto incrementali, portano alla realizzazione di prodotti che sono nuovi per l’impresa ma non per il mercato; ne risulta nel complesso affievolito l’effetto sul potenziale di crescita.
Un dato incoraggiante emerge dalle start-up innovative iscritte nel registro delle imprese in base al decreto legge cosiddetto “Sviluppo bis” dell’ottobre 2012: sono circa 1.800 imprese che per oltre il 60 per cento operano nei settori high-tech, in particolare nelle biotecnologie e nell’ICT.

Ma in Italia l’attività innovativa risente negativamente della modesta capacità delle politiche pubbliche di creare un ambiente dinamico, favorevole all’innovazione. Come risulta anche dagli indicatori Doing Business della Banca mondiale, l’allocazione delle risorse verso le imprese più innovative è frenata da un contesto istituzionale che ostacola l’avvio e lo svolgimento dell’attività di impresa e da una regolamentazione talvolta troppo restrittiva.
Il contributo delle imprese è imprescindibile, gli imprenditori devono cogliere le sfide del cambiamento, puntando sull’innovazione, sulla capacità di partecipare attivamente alle filiere produttive globali e di essere presenti sui mercati esteri più dinamici. Alcune lo hanno già fatto, altre – purtroppo una maggioranza così ampia da condizionare le statistiche aggregate – ancora stentano.

Innovazione e internazionalizzazione si rafforzano vicendevolmente, sono due componenti di una medesima strategia di successo. L’internazionalizzazione, favorendo l’ampliamento e la diversificazione dei mercati di sbocco, accresce il rendimento netto degli investimenti in progetti innovativi. L’innovazione di processo accresce l’efficienza e quindi la competitività di costo dell’impresa, quella di prodotto sostiene la competitività cosiddetta non di prezzo: in entrambi i casi ne beneficia la capacità di accedere a nuovi mercati internazionali e a espandersi in quelli su cui si è già presenti. È noto che la dimensione aziendale, pur con le necessarie qualificazioni del termine, appare cruciale nell’influenzare l’insieme delle decisioni strategiche dell’impresa.

La piccola dimensione rende più difficile assorbire i costi fissi connessi con l’avvio di un’attività di esportazione o di produzione all’estero e con le asimmetrie informative sulle modalità di accesso ai mercati esteri; non consente di beneficiare delle economie di scala insite nell’innovazione tecnologica e in tutte quelle altre attività a monte e a valle della produzione – marketing, pubblicità, reti distributive – che sono fondamentali per accrescere la capacità competitiva.

È naturale – accade in tutti i paesi – che le nuove idee imprenditoriali in una prima fase prendano la forma di imprese di piccola dimensione; è meno naturale che, come accade in Italia, la gran parte di queste aziende rimanga intrappolata in scale produttive ridotte, sembrando priva del notevole potenziale di crescita tipico delle start-up innovative che stanno guidando l’attuale rivoluzione tecnologica nel mondo. L’espansione del perimetro aziendale,
il rafforzamento della capacità di innovazione e di internazionalizzazione richiedono alle
imprese di saper intraprendere profondi processi di trasformazione, modificando la propria struttura finanziaria
– anche con l’investimento di risorse proprie – e adeguando gli assetti proprietari, la governance e i modelli organizzativi.

Il miglioramento della competitività delle imprese passa in misura importante attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano di cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema di istruzione e di ricerca. A questo riguardo, studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività
dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività.

Nel confronto con gli altri principali paesi avanzati, la struttura finanziaria delle imprese italiane è più sbilanciata verso l’indebitamento. È un tratto strutturale che dipende anche dalla scarsa propensione delle imprese ad aprire l’azionariato a investitori esterni. Altri aspetti, di natura più congiunturale, vi hanno contribuito n
egli anni precedenti la crisi:
condizioni di offerta del credito molto favorevoli e una marcata attenuazione, dal 2001, delle
agevolazioni fiscali per gli aumenti di capitale previste dalla Dual Income Tax, poi abolita nel 2004. Il grado di
leverage delle imprese è aumentato di oltre 10 punti percentuali dall’inizio dello scorso decennio, raggiungendo il 47 per cento nel terzo trimestre 2013, contro il 41 della Germania e il 31 della Francia. Alla crescita dell’indebitamento non ha corrisposto un rafforzamento della capacità delle imprese di sostenerne il costo: il rapporto tra oneri finanziari e margini lordi è progressivamente aumentato. Un maggior contributo del capitale nella struttura finanziaria delle imprese, oltre a renderle meno vulnerabili nelle fasi negative del ciclo, consentirebbe di finanziare più agevolmente progetti caratterizzati da rischi e rendimenti elevati come quelli legati
all’innovazione e all’internazionalizzazione. Gli incentivi sono recentemente mutati nella giusta direzione. Limiti più stringenti alla deducibilità degli interessi pagati sul debito e la possibilità di dedurre, dal 2011, un rendimento figurativo dei nuovi apporti di capitale hanno in buona parte riequilibrato il trattamento fiscale del capitale di rischio rispetto a quello di debito.

Le imprese non potranno che trarre vantaggio da questo mutamento di incentivi nelle loro scelte di finanziamento, anche se la difficile fase congiunturale ne rallenta gli effetti. Un segnale positivo emerge dal maggiore interesse per la quotazione in borsa. Dal gennaio 2013 si sono quotate oltre venti imprese italiane, il numero più elevato dal 2007; altre hanno annunciato l’intenzione di farlo. Le quotazioni hanno riguardato in larga parte società non
finanziarie di piccole e medie dimensioni e si sono concentrate nel mercato alternativo del capitale (AIM), che ha costi di ammissione e requisiti regolamentari inferiori rispetto al mercato principale. Ampliare il ricorso al capitale richiede alle imprese un impegno ad accrescere la trasparenza dei bilanci e l’apertura a soggetti esterni.
Proseguendo nel consolidamento della propria dotazione di capitale, le banche potranno assicurare un più adeguato sostegno finanziario alle imprese; è altresì importante per gli intermediari possedere un’attitudine nei confronti del credito legata alla qualità delle stesse imprese, al loro impegno a porre in essere i necessari processi di riorganizzazione.

Per il finanziamento dei loro investimenti le imprese potranno inoltre ricercare nuove risorse da affiancare ai prestiti bancari. È nell’interesse delle banche favorire un più ampio accesso diretto delle imprese ai mercati del capitale, mirando a mantenere un rapporto equilibrato tra impieghi e depositi, condividendo con il mercato i rischi insiti nei finanziamenti alla clientela, evitando l’emergere di conflitti di interesse.
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Una ripresa robusta e duratura della crescita dell’economia italiana costituisce il necessario presupposto per il progressivo riassorbimento della disoccupazione e per offrire concrete prospettive occupazionali ai cittadini tutti e alle generazioni più giovani in particolare, le più colpite dalle crisi; è funzionale a raffo
rzare la sostenibilità delle finanze pubbliche e la stabilità finanziaria di banche e imprese. La ripresa della crescita richiede di affrontare risolutamente i nodi strutturali che hanno frenato l’economia italiana già prima delle crisi e ne hanno aggravato le conseguenze.
Non si tratta solo di rimuovere gli ostacoli all’investimento in capitale umano e recuperare i ritardi accumulati nell’adozione di nuove tecnologie; sono necessari comportamenti e politiche volti a stimolare gli investimenti
fissi – al tempo stesso fattore di offerta e componente fondamentale della domanda – e a innalzare le frontiere della conoscenza e della tecnologia, in ultima analisi, la crescita del Paese.
Per lungo tempo, l’influenza negativa di un contesto istituzionale poco favorevole all’attività imprenditoriale sulla competitività e sulla sua capacità di attrarre investimenti dall’estero è stata sottovalutata. Va riavviata e intensificata l’azione riformatrice in questo ambito, con l’obiettivo prioritario di snellire un quadro normativo complesso e ridondante, definendo per l’attività economica regole chiare, facilmente applicabili e stabili nel tempo;

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