Il vangelo che serve all’Europa: oggi in Grecia, domani in Italia (di Miguel Gotor)

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Tsipras ha vinto la scommessa del referendum. Un atto politico che dice due cose chiare: no all’Europa a trazione tedesca, stop alle politiche di austerità. Ora bisogna vedere in che misura tale esito, dopo le prudenti dimissioni del vincitore Varoufakis, riuscirà ad aiutare il necessario negoziato con Bruxelles per evitare il male peggiore, ossia il default della Grecia.

In questi giorni ha circolato una lettura banalizzante del referendum, del tutto speculare a quella apocalittica che dà per inevitabile l’uscita della Grecia dall’euro: da un lato, ha ridotto la vicenda a una normale trattativa tra Stati dell’Eurozona, creditori e debitori, ognuno dei quali fa i propri interessi nazionali nell’ambito di un comune contesto europeo; dall’altro, ha messo in evidenza come Tsipras, al di là della retorica e della propaganda, sia disposto a usare ogni mezzo per ridurre i debiti da pagare e per lucrare condizioni sempre più favorevoli per il suo Paese. Tale interpretazione riduttiva contiene elementi di verità, ma ha il limite di essere subalterna all’antichissima narrazione che vede opporre le formiche nordiche e tedesche, sempre rigorose e disciplinate, alle solite cicale mediterranee, sfaticate e disordinate, ma piene di astuzia, ovviamente levantina.

Se per un attimo provassimo ad alzare lo sguardo, magari con il Vangelo in mano, la realtà apparirebbe immediatamente più profonda e articolata. Il Vangelo come una bussola per orientarci nel mare in tempesta, il Mediterraneo, ormai trasformatosi in cimitero senza sepoltura per migliaia di donne e di uomini senza nome che cercano in Europa la speranza di una vita degna di essere vissuta, ma anche crocevia e fronte dello scontro economico e politico che la Grecia simboleggia e rappresenta.

“Chi è senza peccato scagli la prima pietra” si trova scritto nel Vangelo: e infatti, se siamo arrivati sin qui, è perché tutti i Paesi dell’Eurozona, Germania e Francia in testa, hanno tradito lo spirito del trattato di Maastricht, si sono rifiutati di salvare la Grecia quando sarebbe costato una manciata di miliardi, ma non lo hanno fatto perché c’erano da vincere le elezioni regionali in Germania, e la vigilanza delle istituzioni europee è stata tardiva e discrezionale.

Quanti in questi anni hanno prestato denaro alla Grecia lo hanno fatto nella cinica consapevolezza di dare da bere a un ubriaco, ma lo hanno continuato a fare in cambio della vendita delle proprie merci e perché ne traevano profitto per le loro economie nazionali. Gli aiuti europei, il cosiddetto primo e secondo salvataggio, sono arrivati quando ci si è resi conto che la Grecia non era più in grado di pagare i debiti, ma i 250 miliardi investiti dall’Europa sono serviti in gran parte per far sì che le banche tedesche e francesi, che si erano troppo esposte, rientrassero del denaro imprestato, nella piena consapevolezza di speculare e di assumersi un rischio. Così facendo si è realizzata una vera e propria partita di giro a scapito dei Paesi mediterranei, a partire dalla Spagna e dall’Italia. Il nostro Paese, ad esempio, all’inizio della crisi greca aveva un’esposizione assai modesta nei riguardi del debito pubblico ellenico (circa 1,7 miliardi di euro), che ora sono saliti a ben 36 miliardi, non perché i soldi dei nostri contribuenti siano serviti a pagare le pensioni dei greci, come da più parti viene scritto, bensì a favore di chi improvvidamente aveva finanziato lo sviluppo dopato dell’economia greca per trarne il massimo profitto possibile.

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Sempre nel Vangelo (Matteo 6,12) si legge: “e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. E ciò vuol dire che se ogni discorso sul debito implica una pena da scontare per reintegrate la giustizia, la misericordia di Dio nel condonarli è condizionata dalla nostra disponibilità a perdonare gli altri. La storia dell’umanità è sin dalle origini un’immane lotta tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, creditori e debitori, ma se è vero che è giusto pagare i debiti, è altrettanto vero che non bisogna perseguitare e umiliare chi si trova nel bisogno, soprattutto se chi ha prestato il denaro era consapevole di compiere una speculazione e implicitamente metteva in conto che non gli sarebbe stato restituito integralmente.

Purtroppo nell’analisi di queste vicende preferiamo essere senza memoria e storia: e non ci piace ricordare che nel 1953, ben 14 Paesi europei condonarono alla Germania il 50 per cento dei suoi debiti di guerra, una cancellazione che ha permesso il formidabile sviluppo tedesco successivo. Così anche fingiamo di non sapere che il dismorfismo europeo tra un nord atlantico e un sud mediterraneo non è un millenario difetto da correggere, ma è l’unico incrocio possibile, vitale perché perennemente in discussione, che consente di parlare a buon diritto di civilizzazione europea. Un’identità comune (antropologica, culturale, economica, religiosa) che mescola da sempre (attraendo e respingendo tra reciproci slanci di fiducia e abissi di diffidenza) i popoli della birra, del burro e della patata con quelli della vite, dell’olio e del grano, i campi aperti e quelli chiusi, l’aratro pesante e quello leggero, i protestanti e i cattolici, la bionda e la mora.

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Attenzione allora a non rivivere l’incubo di voler collegare direttamente le presunte attitudini naturali di un popolo alle responsabilità dei governi perché si sa come si comincia e non si sa come si finisce: abbiamo impiegato decenni a separare le colpe del governo nazista da quelle del popolo tedesco e sarebbe bene che tale generosità interpretativa non fosse dimenticata e venisse applicata ovunque e in modo equilibrato.

Il punto è che in queste ore è in gioco un’idea di Europa e quel referendum vede contrapporsi (questo è l’errore compiuto da entrambi i negoziatori) da un lato l’economia, la finanza e la tecnocrazia, dall’altra la politica, la democrazia dei cittadini e l’autodeterminazione dei popoli. La questione non è solo e tanto economica dal momento che la Grecia rappresenta appena il 2 per cento del Pil continentale. Attraverso la Grecia, però, si vogliono disciplinare e ammonire gli altri Paesi mediterranei, a partire dall’Italia: non pensiate che sia possibile contestare la dottrina delle “riforme strutturali” imposte dall’austerità (taglio della spesa pubblica, flessibilizzazione del lavoro e deflazione salariale/privatizzazioni) senza pagare delle conseguenze politiche. L’anomalia di Tsipras va spenta perché per la prima volta un’alleanza di larghe intese si è formata non per assicurare l’attuazione dell’ortodossia europea in materia di politica economica, ma per provare a metterla in discussione. E quindi in gioco non è tanto la moneta unica, ma l’Euro come ideologia in cui è consentita una sola politica economica che è più forte delle costituzioni nazionali e delle libere scelte politiche dei cittadini.

Il risultato del referendum ellenico segnerà la fine dell’europeismo declamatorio, sincero quando non è opportunista, che ha caratterizzato i socialisti e la sinistra continentale degli ultimi vent’anni, quello della responsabilità (“È l’Europa che ce lo chiede”) e degli Stati Uniti d’Europa come orizzonte messianico inevitabile. Il compromesso, a maggior ragione dopo le dimissioni del ministro del Tesoro ellenico che soltanto qualche giorno fa aveva definito “terroristi” la controparte europea, è necessario, perché l’uscita della Grecia dall’Europa costerebbe molto di più che salvarla. Ma giunti dove siamo serve come il pane un’Europa federale e bisogna avanzare a tappe forzate lungo questo sentiero politico anche avviando una nuova fase di integrazione a due velocità, iniziando dunque da un nucleo forte e originario dei Paesi disponibili a farlo. Alla crisi del progetto europeo si deve rispondere con un’unione integrale. Federazione significa solidarietà, cooperazione, fiducia, esattamente tutto quello che è mancato, da ambo le parti, in questo drammatico passaggio.

Vuol dire che i più forti devono aiutare i più deboli in cambio di un maggiore disciplina fiscale e non per diventare ancora più robusti e arroganti. Ciò significa in concreto abbandonare le politiche dell’austerità non per ragioni ideologiche, ma perché hanno fallito alla prova dei fatti: i debiti pubblici sono aumentati, la disoccupazione è cresciuta e ovunque si sono radicalizzate forze anti-sistema di carattere populistico (di destra, di sinistra o trasversali) che lucrano consenso da questa situazione. È sempre più chiaro che le politiche di austerità sono servite essenzialmente a mettere la Germania e i suoi alleati al riparo dalla crisi a spese dei paesi mediterranei così come l’allargamento a est dell’Europa è servito a ripagare la Germania dai costi dell’unificazione offrendole nuovi mercati a basso costo.

Se vogliamo davvero salvare il progetto europeo è necessario mettere all’ordine del giorno del dibattito pubblico continentale il tema della ristrutturazione dei debiti. Bisogna cioè approfittare della crisi greca non per fare ulteriori concessioni interessate agli ellenici, ma per rilanciare il progetto continentale in senso federale, rompendo con la dottrina austerità, che è l’ideologia dei conservatori tedeschi, i quali stanno facendo i loro interessi nazionali, ma stanno portando a distruzione il progetto europeo, rischiando di rendere inevitabile, prima o poi, l’abbandono della moneta unica. Infatti se l’unica competitività possibile è quella che si raggiunge deprimendo i salari e tagliando la spesa pubblica, ciò comporta inevitabilmente una riduzione della domanda interna e l’avvio di processi deflazionistici che rendono i debiti pubblici ancora più onerosi.

È un cane dalla testa tedesca che si morde la coda mediterranea e che finirà per portare a un punto di rottura sociale che, se non si cambia rotta, investirà la stessa idea d’Europa in modo più traumatico di quanto costerebbe affrontarlo ora con le ragioni della politica. La scelta è tra la resistenza all’austerità e l’inevitabile depressione economica per l’Europa meridionale, un pezzo di civiltà senza il quale l’Europa stessa non esisterebbe più. Per questo motivo la partita che si sta giocando in queste ore riguarda indirettamente proprio noi: oggi in Grecia, domani in Italia e sarebbe necessario esserne consapevoli e agire di conseguenza. Miguel Gotor
L’Huffingthon Post
6 luglio 2015

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