Libia, Isis minaccia l’Italia: «Siamo a sud di Roma». 21 cristiani copti decapitati. E’ arrivato l’uomo nero: che fare?

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Sole 24 Ore

con un’analisi di Ugo Tramballli 15 febbraio 2015

Un altro barbaro gesto dell’Isis, questa volta in Libia. E nuove minacce all’Italia dopo quelle dei giorni scorsi al ministro Gentiloni. Lo stato islamico ha diffuso un video di quella che sembrerebbe essere la decapitazione dei 21 cristiani copti egiziani rapiti in Libia.

In attesa di conferme
Il portavoce del ministero degli Esteri egiziano, Abdel Atti, come ha riportato ancora nel pomeriggio di oggi il sito del quotidiano Al Ahram, ha riferito che al Cairo non vi sono novità circa i copti e «finora non c’è conferma» se «sia accaduto loro qualcosa di brutto, il Cielo non voglia». Ieri il consigliere della presidenza libica per gli affari delle tribù arabe, Ahmed Abu Taram, aveva riferito che «fonti tribali libiche hanno confermato che l’Isis, finora, non ha ucciso gli egiziani rapiti».
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La minaccia all’Italia
«Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a sud di Roma… in Libia», questo il messaggio collegato al video, secondo quanto riferisce l’israeliana Rita Katz, direttrice del Site, il sito americano che monitora l’attività delle organizzazioni jihadiste. «Avete buttato il corpo di Osama bin Laden in mare, mischieremo il suo sangue con il vostro». E’ un’altra frase contenuta nel nuovo video dell’Isis che mostra le immagini del mare insanguinato dai corpi degli egiziani copti decapitati.

Le immagini rilanciate su Twitter da un sito vicino agli jihadisti mostrano gli ostaggi in tuta arancione che vengono fatti chinare e poi sgozzati. Finora erano state diffuse soltanto alcune fotografie su Twitter che mostravano cinque uomini in ginocchio in riva al mare con alle loro spalle gli jihadisti vestiti di nero, apparentemente pronti a sgozzarli. I 21 lavoratori cristiani, provenienti dal governatorato di Minya, nell’Egitto centrale, erano stati rapiti a Capodanno nella città di Sirte.

In questo clima di violenza, come anticipato dal Sole 24 Ore, l’ambasciata d’Italia a Tripoli ha sospeso oggi le sue attività in seguito al peggioramento delle condizioni di sicurezza. Il personale è stato temporaneamente rimpatriato via mare. I servizi essenziali saranno comunque assicurati. Quella italiana era l’ultima rappresentanza occidentale ancora presente nel Paese.

Intanto prende forza l’ipotesi di un intervento militare all’interno di una coalizione internazionale. L’ultimo a schierarsi a favore è il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. «Accogliamo con favore l’intento del Governo di non abdicare alle responsabilità che ci derivano dal ruolo che il nostro paese deve avere nel Mediterraneo», ha affermato Berlusconi a proposito della crisi in Libia, dove «un intervento di forze militari internazionali, sebbene ultima risorsa, deve essere oggi una opzione da prendere in seria considerazione».

Sole 24 Ore
Truppe italiane in Libia: tutti i rischi dell’opzione militare

di Alberto Negri, con un articolo di Gianandrea Gaiani16 febbraio 2015

Armiamoci e partite, è una frase italiana diventata proverbiale per stigmatizzare l’atteggiamento di chi si sottrae ai rischi di un’azione da lui stesso promossa o perorata pur esortando gli altri a intraprenderla. Risuona nelle orecchie del benpensante come un ossessivo ritornello di stagione ogni qual volta si decide un’azione militare.

Armatevi e partite: è questo il vero motivo per cui vengono adottate decisioni prive di senso, perché sostanzialmente prive anche di morale, il che significa non conoscere le situazioni o addirittura occultarle. Ma siccome i nostri politici, pur ignorando quotidianamente la politica estera, considerata una sorta di ancella povera delle istituzioni, sono piuttosto abili, sanno sempre come cavarsela e invocano regolarmente il cappello internazionale per giustificare un intervento di cui di solito non conoscono la portata sia in termini politici che militari.

Per questo quando tornano le bare dei soldati, come è avvenuto in Afghanistan e in Iraq, possono presentarsi senza vergognarsi troppo alle cerimonie che precipitano il Paese nel lutto nazionale. Un fastidioso profluvio di retorica che non aiuta a decidere per il meglio e che fuori dai nostri confini risulta incomprensibile.

Se si decide di mettere piede in Libia, naturalmente con la patente dell’Onu, dell’Europa o della Nato (meglio dell’Onu visto che conduce i negoziati tra le fazioni), bisogna anche sapere cosa ci aspetta. E a maggior ragione visti i precedenti coloniali in Libia e quanto accaduto nel 2011. Dopo i raid promossi dalla Francia e della Gran Bretagna, appoggiati dai Cruise americani, anche l’Italia entrò nella missione: una decisione non di poco conto visto che sei mesi prima ricevevamo Gheddafi in pompa magna a Roma firmando (con la ratifica a grande maggioranza del Parlamento) un trattato di cooperazione e sicurezza che ci impegnava a salvaguardare il regime.

Accettammo allora le decisioni altrui per non restare ai margini e difendere gli interessi economici ed energetici ma si trattò comunque di una clamorosa virata della politica estera italiana in Nordafrica che non è passata inosservata. Ora è sulle intenzioni del governo italiano che ruotano le polemiche e il dibattito, come al solito confuso. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha fatto sapere che «l’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord, per fermare l’avanzata del Califfato arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste».

Queste dichiarazioni dopo quelle del ministro degli Esteri Gentiloni vanno soppesate perché si tratta di informazioni importanti: ci sarebbe quindi la possibilità di formare una coalizione a guida italiana. Sarebbe, se risultasse vera, una buona notizia perché vorrebbe dire che questa volta non siamo al traino di qualcuno e possiamo decidere insieme agli altri alleati obiettivi e metodi di intervento.

Ma dobbiamo sapere anche un’altra cosa: una volta messi gli anfibi sul terreno bisogna restarci, e forse anche a lungo, per stabilizzare la Libia. I rischi di perdite tra i soldati in scontri e attentati sono alti. E sicuramente questi rischi erano inferiori mesi fa, quando da più parti si invocava un intervento internazionale in Libia. La missione militare comporta un costo umano, politico ed economico che i Paesi schierati contro Gheddafi nel 2011 non vollero accettare lasciando che il Paese sprofondasse nell’anarchia e nel caos dove adesso si è infilato il Califfato. Ma proprio di questo oggi si parla: saldare un conto aperto lasciato in sospeso da altri. Armiamoci e partite, quindi, sapendo bene però dove si va e a quale prezzo.

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