Pelé 80 anni, il campione che inventò la modernità

Pelé

22 OTTOBRE 2020Il compleanno del fuoriclasse diventato un brand. “Spero che Dio in cielo mi accolga bene come quaggiù dove il calcio mi ha aperto tutte le porte” 

DI EMANUELA AUDISIO

Proprio no: non è stato la nostra infanzia, ma il futuro. Pelé, il bisillabo più famoso dello sport, ha anticipato non solo Burgnich, ma un’epoca. Non ci sarebbero Ronaldo, Messi, Neymar, Mbappé senza di lui. E nemmeno Federer, Woods, Hamilton, LeBron. Non ci sarebbero campioni che firmano contratti per cambiare marca, incidere dischi (due con Elis Regina, la Mina brasiliana), fare film, tv, serie, sponsorizzare prodotti (lo ha fatto anche per il Viagra), vendere multiple fantasie, diventare logo. Pelé 2.0, chiamatelo così. Perché è stato lui a farci entrare nella modernità, nello sport versione entertainment (scusa Mura) ora tanto di moda. Oggi che compie 80 anni dice: “Spero che lassù Dio mi accolga bene come avete fatto quaggiù dove il calcio mi ha aperto tutte le porte”.

1.281 gol, ufficiali e non, versione Fifa, ne sono la prova più evidente. Tanto che Andrada, il portiere che prese il millesimo, se lo fece stampare sui biglietti da visita. Non l’aveva deviata, ma con quello sbaglio era entrato nella storia. Gli aveva fatto gol, o milésimo, Pelé, un re, mica un calciatore. Anche da attore per la rovesciata (“la chilena”), in Fuga per la Vittoria, buona la prima, nessun secondo ciak. Pelé ha fatto tutto prima degli altri, ha pianificato calcio, gol, futuro. Per Brera in campo è stato una poesia alla Leopardi, per Romario “un poeta quando tiene la bocca chiusa”, per Cruyff “l’unico giocatore che sia riuscito a sorpassare i confini della logica”, per Venditti “era l’anno dei mondiali quelli del ’66, la regina d’Inghilterra era Pelé”, per l’Onu “un cittadino del mondo”, per il titolista del Sunday Times all’indomani della finale mondiale 1970 “come si scrive Pelé? D-I-O”. 

In un’America sempre divisa dal colore della pelle Pelé è riuscito, molto più dei campioni di oggi, ad essere multiculturale. Era nero, indubbiamente. Ma sembrò non accorgersene nessuno. Rose Ganguzza, la sua ex manager, spiega: “Facemmo un’indagine di mercato, il suo nome era più conosciuto della Coca-Cola”. Ecco, appunto, quando vedete Ronaldo in mutande, Messi che mangia patatine, Federer che cucina la pasta, Buffon che si fa uno shampoo, pensate che Pelé, quasi mezzo secolo fa, era già lì. Nel ’75 firmò un contratto con la Warner da 5 milioni di dollari per tre stagioni. Non da giocatore, ma da performing artist, da imperatore dello spettacolo. Glielo fece firmare per i Cosmos l’avvocato che aveva appena trattato Dustin Hoffman per il film Tutti gli uomini del Presidente. Nessun atleta nero in Usa incassava così tanto, e in più nel calcio, sport sconosciuto, fuori da ogni American dream. Allora il campione più pagato era O.J. Simpson nel football Nfl, 700 mila dollari l’anno, seguito da Wilt Chamberlain e da Kareem Abdul-Jabbar, basket Nba, con 600 mila, perfino Hank Aaron, che nel baseball con il record di 715 fuoricampo aveva superato Babe Ruth, ne guadagnava appena 200 mila. Non solo ma per favorire il trasferimento dal Brasile all’America era dovuto intervenire (con pressioni) il segretario di Stato, Henry Kissinger.

Quando sentite parlare di icone, sorridete pure: Pelé in Africa, tra Zaire e Congo, per 90′ ha fatto fermare guerre e alla Casa Bianca ha palleggiato con quattro diversi presidenti (Nixon, Ford, Carter e Reagan), a Rio nel ’97 anche con Bill Clinton. Aveva vinto tre mondiali, già. E aveva giocato in una sola squadra, il Santos. Su Zidane hanno fatto un video-art (17 telecamere in campo) che è andato anche a Cannes, la serie The Last Dance su Michael Jordan è stata l’evento dell’anno, bè Pelé è finito molte volte sullo schermo e anche in un’opera di Andy Warhol, su commissione del mercante d’arte Richard L. Weissmann, che la tiene in una villa a Seattle. E che aggiunge. “Ma i due hanno molto litigato perché Pelé ha insistito che ci fosse anche la marca del pallone”. Iconizzato e forse canonizzato anche nella pop-art. 

Pelé nato povero, a Três Corações, ha dimostrato di avere un cuore molto speciale per il denaro, forse perché è stato derubato dal suo manager. Vero che dal 2014 la sua salute è instabile, che un intervento all’anca gli ha dato problemi di mobilità, e che per questo è un po’ depresso, ma sembra che la sua ritrosia a comparire nella cerimonia inaugurale dei Giochi di Rio fosse dovuta al compenso zero. Pelé ha sempre capitalizzato tutto, talento incluso, e diversamente da Maradona ha preferito essere sempre dalla parte delle istituzioni: uomo con, piuttosto che contro. Ha avuto numerose relazioni, tre matrimoni, l’ultimo nel 2016, con una donna di oltre trent’anni più giovane. Tre figli dalla prima, tra cui Edinho, portiere poi allenatore condannato nel 2017 a 12 anni e 10 mesi di reclusione per riciclaggio di denaro proveniente da traffico di droga, due gemelli dalla seconda (Celeste e Joshua, anche lui calciatore) e almeno altre due figlie.

Di recente ha perso Zoca, il fratello minore. Però a 80 anni questa cosa che ha detto sul benvenuto che vuole ricevere in Paradiso è divertente. Si vede che vuole le porte aperte anche lì. Sigge Parling, il difensore svedese che lo marcò (inutilmente) nella finale del ’58 ha detto: “Dopo il quinto gol aveva voglia di applaudirlo anch’io”. Quando diventi dio anche per il tuo nemico non puoi non avere un buon compleanno. 

Pelé vincitore di tre campionati mondiali di calcio

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